Sull’attualità del modello fisico nell’ingegneria contemporanea
Intervista ad Aurelio Muttoni
Aurelio Muttoni analizza l’esperienza di Heinz Isler: «Mi chiedo se il suo contributo principale nel campo della progettazione tra architettura e ingegneria non siano i suoi modelli in gesso. Il suo limite? Per lui il guscio era una forma strutturale, non architettonica».
Il professor Aurelio Muttoni1 è uno dei massimi esperti di strutture in calcestruzzo armato e un professionista attivo nel riconoscere l’importanza dell’integrazione tra le discipline dell’architettura e dell’ingegneria strutturale fin dalla fase concettuale del progetto. Per questo motivo, è stato contattato per una conversazione sul ruolo del modello nella pratica ingegneristica di oggi, a partire dalle esperienze di Heinz Isler.
Giulia Boller: Heinz Isler è uno degli ingegneri svizzeri più noti al mondo e sicuramente uno dei più prolifici costruttori di gusci sottili in calcestruzzo armato. Avendo realizzato più di mille strutture solo in Svizzera, i suoi gusci sono onnipresenti nel paesaggio svizzero del Dopoguerra. Da svizzero prima che da ingegnere, qual è stato il suo primo incontro con l’opera di Isler?
Aurelio Muttoni: Il mio primo contatto con Isler è stato quello con l’edificio di Biasca perché ci passavo davanti tutti i giorni per andare alla scuola media. Mi ricordo che la forma mi incuriosiva. Il progetto è infatti molto più interessante di quello di Bellinzona, davanti al quale invece passavo per andare al liceo. Quest’ultimo mi sembrava strano. Ho imparato più tardi che ambedue erano di Isler, e ho capito solo dopo il motivo della mia perplessità per il secondo progetto: purtroppo in questo caso la facciata è a filo con la struttura per cui si perde la percezione dello spessore del guscio e la sua eleganza. In questo caso, anche la doppia curvatura al bordo non aiuta.
GB: Questo è un punto interessante perché Isler ha sempre sottolineato la leggerezza delle sue strutture, espressa dallo spessore sottile dei gusci da lui progettati. Ritiene che la possibilità di percepire lo spessore ridotto del guscio rappresenti uno degli aspetti che rendono questi progetti eleganti?
AM: Esattamente. A mio giudizio i progetti riusciti di Isler sono quelli in cui questa caratteristica viene messa in evidenza. Basti pensare a casi in cui la facciata non è proprio presente, come nella stazione di servizio a Deitingen, oppure quelli in cui la facciata è molto arretrata, come nell’edificio di Camorino. Un guscio, infatti, non rappresenta di per sé un volume con valenze architettoniche. Per sottolineare l’eleganza della struttura, la facciata deve essere distante o non esserci proprio. Tuttavia, questo aspetto si percepisce davvero raramente nel lavoro di Isler.
GB: In alcuni casi questo è più riuscito, in altri meno, come nel progetto di Bellinzona. Tuttavia, Isler è conosciuto come uno dei maestri dei metodi di ricerca della forma con modelli fisici. In particolare, il suo modello a membrana appesa è noto per aver definito forme spaziali non convenzionali caratterizzate da un rapporto diretto tra forma architettonica e comportamento strutturale. In qualche modo ha ripreso un approccio già utilizzato in passato da progettisti come lo spagnolo Antoni Gaudí, l’italiano Giovanni Poleni e il tedesco Friedrich Gösling, che lavoravano con modelli il cui principio base era la forma a catenaria. Come considera il lavoro di Isler, anche rispetto a queste esperienze precedenti?
AM: Con Isler si parla spesso di forme ottimali. Questa definizione è per me problematica. Non si tratta di pure forme catenarie o archi, dove con un carico definito c’è una sola e unica forma. Le sue strutture a guscio sono più complesse perché rappresentano una combinazione di archi che si possono unire in modo libero nello spazio. Di conseguenza, solo definendo uno specifico criterio progettuale si può parlare di forme ottimali anche per le forme libere tridimensionali. In questi casi il modello fisico è indispensabile per la progettazione. A mio avviso in Isler si possono riconoscere due usi distinti del modello fisico, che corrispondono a due fasi distinte del processo progettuale. C’è una fase creativa legata alla comprensione, dove lui faceva uso anche di modelli con il ghiaccio. C’è invece una seconda fase dove con i modelli cercava di quantificare gli sforzi.
GB: Se la prima fase dava la possibilità di esplorare diverse opzioni progettuali in poco tempo, la seconda richiedeva settimane per costruire un modello di misura, testarlo sotto diverse condizioni di carico e osservarne il comportamento. È incredibile che egli abbia presentato questo suo approccio sperimentale per ottenere forme libere quando aveva poco più di 30 anni, alla prima conferenza International Association for Shell Structures di Madrid nel 1959. Cosa pensa al riguardo?
AM: Nelle mie lezioni ho spesso usato l’immagine che mostra diversi modelli in gesso esito di uno dei suoi laboratori didattici con gli studenti (fig. 1). L’intuizione quindi c’era, ma poi cosa ha realizzato concretamente? Il limite di Isler è che egli sia rimasto conservativo nella definizione delle sue forme libere. È un gran peccato perché c’era grande potenziale. Poi invece ti ritrovi il guscio di Bellinzona, che è un progetto deludente sia dal punto di vista architettonico che da quello strutturale. Isler ha posizionato una struttura a simmetria centrale in una situazione che non è per niente simmetrica. Oltre a questo, l’esigenza di massimizzare il volume interno ha portato a indebolire il progetto rendendo la forma più goffa che elegante.
GB: Pochi progetti di Isler sono realmente a forma libera. Nonostante la sua famosa promessa di infinite possibilità di nuove forme a guscio, il progetto dell’edificio per l’azienda Sicli a Ginevra è rimasto quello più complesso da gestire, sia come forma che come comportamento strutturale. Pensa dunque che nel caso di Bellinzona ci sia stato un passaggio errato dal modello fisico alla realizzazione della forma strutturale?
AM: La forma di Bellinzona non esprime sicuramente una relazione diretta con il suo comportamento strutturale. Nei modelli a membrana appesa puoi percepire la doppia curvatura in base al modo in cui il tessuto si comporta rispetto al suo peso proprio. Per questo motivo il progetto Sicli rappresenta secondo me l’esempio più riuscito. Penso che questo abbia anche a che fare col fatto che in questo caso sia presente un’idea architettonica alla base del progetto. Nel progetto di Bellinzona si vede che c’è questa carenza dal punto di vista architettonico. Non è possibile pensare a una forma strutturale e metterla così com’è in un contesto territoriale senza alcun legame con esso. Una forma così funziona solo nel deserto.
GB: Basti pensare anche alle difficoltà che Isler ha incontrato nell’ampliamento per l’Hotel Splendide di Lugano, dove il guscio in calcestruzzo armato si è andato a confrontare con la parte storica dell’albergo in stile neoclassico. Ritiene che questo sia ancora più difficile da raggiungere in un contesto consolidato come quello ticinese?
AM: Alcune volte questo è possibile, come per esempio l’intervento che ho realizzato con l’architetto Elio Ostinelli a Chiasso (cfr.Archi 3/2013, pp. 32-35). Lì si trattava di costruire in un ambito territoriale un po’ disastrato. In questi casi, la forma deve venire da un’idea spaziale, architettonica e territoriale, almeno per come la penso io. Anche con Sicli la situazione è un po’ diversa, dato che il contributo dell’architetto è molto visibile nel progetto. Lo spazio a forma di goccia creato tra i due gusci che costituiscono la struttura evidenzia come la collaborazione tra le due discipline dell’ingegneria e dell’architettura sia fondamentale per la riuscita del progetto. Si tratta di un’idea di forma che poi cambia ed evolve per seguire un’idea architettonica.
GB: Durante il progetto dell’edificio Sicli, il modello e il disegno in sezione sono diventati strumenti fondamentali per la discussione tra l’ingegnere Isler e l’architetto Costantin Hilberer. Isler ha lavorato a partire dalla posizione in altezza delle solette dei diversi livelli per creare una forma libera che si avvicinasse ai primi schizzi sviluppati dall’architetto, con l’aiuto di una serie di modelli fisici in gesso. Questo processo di fatto corrisponde al modo di lavoro di Isler negli edifici a forma libera. Al contrario, Félix Candela ha sempre lavorato con formulazioni matematiche per il controllo della geometria dei suoi gusci a forma di paraboloide iperbolico. Ritiene dunque che per forme definite geometricamente i modelli fisici non sono necessari?
AM: È esattamente quello che è successo quando abbiamo progettato il guscio in calcestruzzo armato a Chiasso. Non abbiamo fatto alcun modello fisico perché la forma era quella di un ellissoide e si poteva dunque rappresentare tutto attraverso disegni tecnici. Tuttavia, abbiamo affrontato sfide nella verifica strutturale basata sul calcolo agli elementi finiti. Abbiamo ottenuto degli strani risultati dal calcolo. Modificando la modellazione digitale più volte, anche solo leggermente, i risultati erano sempre diversi. Questo è terribilmente destabilizzante.
GB: Il pericolo dei modelli agli elementi finiti è quello che non si è più in grado di comprendere le operazioni che si vanno a fare, come in una scatola nera. Come è stato risolto dunque il problema?
AM: Questi strumenti digitali sono pericolosi senza una corretta interpretazione del funzionamento strutturale. L’unico modo è stato quello di trasformare l’ellissoide in una sfera e determinare gli sforzi con l’equazione di Girkman. Si tratta di una formulazione analitica incredibilmente elegante che ci ha permesso di calibrare il modello digitale in modo da far coincidere i risultati. In seguito abbiamo ritrasformato la sfera in un ellissoide.
GB: Questo è un esempio di come la comprensione dei problemi complessi legati al funzionamento di una struttura tridimensionale possa essere migliorata attraverso l’espressione di concetti più semplici e accessibili. Anche Isler ha spesso adottato approcci simili, usando poi un modello fisico per la verifica dei risultati di queste formule analitiche semplificate. Dato che non era ancora disponibile in quegli anni una modellazione digitale agli elementi finiti, i modelli di misura di Isler avevano dunque funzioni analoghe a quelli che si adottano oggi per la verifica della forma strutturale. Ritiene quindi che i modelli di misura non abbiamo più significato oggi?
AM: Nel momento in cui i modelli agli elementi finiti sono diventati abbastanza raffinati, i modelli fisici elastici legati alla verifica del comportamento strutturale non sono più serviti. A partire da un certo punto, il modello non è stato più indispensabile per il calcolo, ma esso è ancora utile per la fase iniziale della progettazione, oppure quando si vuole considerare il comportamento inelastico del calcestruzzo.
GB: Se anche lo stesso Isler inizia a utilizzare i primi metodi di calcolo automatico per la verifica delle strutture, la progettazione concettuale rimane ancora interamente sviluppata con modelli fisici nel suo laboratorio modelli. Qui dunque il modello fisico mantiene un ruolo importante. Cosa pensa del ruolo del modello fisico al giorno d’oggi?
AM: Attualmente ci sono strumenti digitali che permettono di ottenere lo stesso risultato, in alcuni casi ancora più rapidamente del modello fisico. Tuttavia, nella prima fase del progetto, a livello dello sviluppo concettuale, il modello fisico è ancora molto utile. Lavorando con le mani si comprendono immediatamente sia lo spazio tridimensionale che il comportamento strutturale.
GB: Isler non per niente parlava di Fingerstatik per sottolineare l’importanza dell’esperienza fisica col modello di lavoro. Lo usate spesso nella progettazione?
AM: Prendiamo per esempio il progetto che avevo concepito con l’architetto Aurelio Galfetti per il Festival del cinema di Locarno alla fine degli anni Novanta, anche se poi non è mai stato realizzato. L’idea era quella di creare una tenda nella quale si potesse fare una sala di proiezione in alternativa a quella di piazza Grande, in caso di brutto tempo. Doveva essere una struttura temporanea, con un grande arco metallico che serviva per fissare la struttura a membrana (fig. 2). Gli architetti avevano proposto un’immagine, mentre noi ingegneri avevamo lavorato con un modello strutturale fisico in scala ridotta (fig. 3). Si nota immediatamente che i due strumenti sono completamente diversi, sia come materializzazione che come utilizzo. Se dovessi progettare oggi una membrana partirei però ancora da un modello fisico. Come nel guscio, anche nella membrana c’è libertà nella configurazione spaziale perché si possono applicare gli sforzi in diverse direzioni. C’è però un’esigenza diversa che è quella legata alla stabilità della forma. Essa si ottiene grazie a una doppia curvatura, che non è semplice da gestire nello spazio da un punto di vista concettuale né su un foglio di carta con una matita né sullo schermo del computer. Per questo caso specifico, il modello fisico è ancora imbattibile proprio per gli ingegneri. Non conoscevo l’espressione di Isler della «statica con le dita», ma la trovo molto calzante, perché è proprio applicando piccole forze sul modello che si modifica la forma, permettendo così di capire subito il funzionamento.
GB: Sicuramente le numerose strutture a guscio che Isler ha costruito durante la sua carriera testimoniano sia le capacità progettuali che l’abilità imprenditoriale. Tuttavia, ritiene che il contributo di Isler alla progettazione contemporanea vada oltre i numerosi gusci in calcestruzzo armato che ha costruito, e sia legato piuttosto al suo approccio sperimentale basato sui modelli fisici?
AM: Sicuramente l’uso che Isler ha fatto dei modelli fisici in ingegneria è qualcosa di eccezionale. Tuttavia, se si pensa al ruolo del modello fisico in architettura questa storia dura da moltissimi secoli. Gli architetti hanno una tradizione consolidata proprio perché sono abituati a lavorare con modelli. Gli ingegneri, invece, sono meno abituati a usare modelli fisici. Inoltre, se c’è una grande tradizione nella costruzione dei gusci sottili in calcestruzzo armato a partire dall’inizio del XX secolo fino agli anni Cinquanta, Isler è comunque uno dei primi, se non il primo, a sviluppare forme libere non di natura geometrica. Mi chiedo se proprio quell’immagine con tutti i modelli in gesso non sia in realtà il suo contributo principale nel campo della progettazione tra le discipline dell’architettura e dell’ingegneria, concretizzato di recente in progetti come il Crematorio di Toyo Ito con l’ingegnere Mutsuro Sasaki a Kakamigahara, in Giappone (fig. 4). Lo stesso ingegnere giapponese ha poi anche progettato il Rolex Learning Center di SANAA a Losanna (fig. 5). Da questo punto di vista il contributo di Isler è potentissimo, soprattutto nella concezione di una forma puramente libera.
GB: Questi progetti manifestano collaborazioni forti tra ingegnere e architetto. Si torna dunque all’importanza di coinvolgere l’ingegnere già nella fase iniziale del progetto, per fare in modo che il concetto architettonico integri anche la componente strutturale.
AM: Quando parliamo di gusci, un ingegnere da solo fa una struttura, mentre un ingegnere che collabora con l’architetto fa un’architettura a guscio. Questo è un tema fondamentale che costituisce anche il limite di Isler perché a mio avviso lui ha fatto pochissime architetture a guscio. In realtà per lui il guscio era una forma strutturale, non una forma architettonica. Si tratta dunque di un approccio diverso rispetto a quello che ho adottato per un progetto con l’architetto francese Patrick Berger. In questo caso si trattava di progettare una copertura per l’entrata della metropolitana nel centro di Parigi (fig. 6). Il progetto era inteso come un guscio sottile in vetro e calcestruzzo fibrorinforzato. In quel caso, ho cercato di materializzare gli schizzi a mano dell’architetto attraverso un piccolo modello in scala, dove ho corretto la forma in modo che funzionasse anche dal punto di vista strutturale (fig. 7).
GB: Come nel progetto precedente dunque ha utilizzato ancora un modello fisico per discutere gli aspetti principali del concetto. La collaborazione tra lei e l’architetto si è dunque esplicitata in un modello fisico?
AM: Il modello dell’ingegnere è utile per fare in modo che un’idea architettonica corrisponda a un’idea strutturale. Se si parte solo da un’idea strutturale molto probabilmente si arriva alla definizione di una forma geometrica. Quando invece si comincia a volerla adattare a delle esigenze architettoniche, allora il modello fisico è ancora utile, se non indispensabile. In altri ambiti non è necessario, ma per i gusci e le membrane il modello fisico è ancora uno strumento concettuale per individuare la forma e uno strumento di comunicazione tra le discipline per trovare una sintesi tra le diverse esigenze, anche come base di partenza per la costruzione del successivo modello digitale.
Note
- Aurelio Muttoni è Professore Emerito presso l’EPFL, dove ha diretto lo Structural Concrete Construction Laboratory dal 2000 al 2024. È co-fondatore dello studio di consulenza ingegneristica Muttoni Partners a Ecublens e Lurati Muttoni partner a Mendrisio.